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INTERVISTA A LORENZA MOSCARELLA – parte 2

Cambiamo completamente focus e parliamo ora di uno dei temi che imperversano nella mente di un neolaureato, il Curriculum Vitae. Ti chiedo, esiste il curriculum perfetto? E a grandi linee cosa ci deve essere, o meglio, non essere nel curriculum per essere quantomeno efficace?

Dunque, io odio la parola perfezione, il curriculum perfetto è il curriculum che ti rappresenta veramente, cioè quello che ti fa capire chi sei e non quello che potrebbe fare piacere al recruiter.

Infatti, una delle obiezioni che mi fanno più spesso, sia su CV che in materia di colloquio è la seguente: << Ma io cosa devo dire o scrivere? Cosa devo sostenere e sottolineare per farmi scegliere?>> La risposta a queste domande è… NIENTE. Cerco di spiegarmi meglio: non esistono risposte definite a queste domande, poiché le suddette non hanno proprio senso. La chiave è RAPPRESENTARSI e raccontare al meglio le proprie caratteristiche personali, prima di tutto perché si seleziona la persona e non l’esperienza, poi l’esperienza rappresenta la persona.

Facciamo un esempio pratico: Prendiamo uno studente o una studentessa che ha deciso di frequentare l’Università fuori dalla propria città o dalla propria regione. Questo fatto già, in qualità di recruiter, mi dice molto di quello/a studente/studentessa, perché a 19 anni si sono voluti allontanare dagli affetti e consapevolmente sapevano di dover affrontare determinate difficoltà. Queste sono narrazioni interessanti, non soltanto cosa hanno studiato, ma anche gli impegni, i passaggi e le difficoltà che hanno affrontato e che mi fanno capire la persona che ho davanti, quindi presumibilmente persone aperte ai cambiamenti o a nuove esperienze.

Il problema infatti è la narrazione. Le persone tendono ad iniziare il CV con frasi: “… Sono laureato in: …” Che di per sé è una narrazione statica, piatta. Avviene questo perché le persone non sanno chi sono e non sanno descriversi e cosa più importante non pensano che raccontarsi sia il motivo per cui dovrebbero essere assunte. Quindi, partendo da questi presupposti io dico sempre che il CV efficace è quello che parla di te, che ti racconta, che fa arrivare il perché delle tue scelte e poi racconta in chiave diretta le tue esperienze, intese come: << A me non interessa che fai o hai fatto il farmacista; mi interessa cosa hai imparato negli anni in farmacia, quella è una narrazione (e aggiungo anche interessante) >>. Questo secondo me è il curriculum che funziona. Ovviamente ci sono una serie di errori tecnici da evitare come la formattazione inadeguata, i formati brutti, tipo l’Europass, a meno che non sia richiesto. Tolti questi aspetti, fondamentalmente il CV che funziona è quello che comunica chi sei.

Io faccio sempre l’esempio del trailer a lezione: << Quanto tempo dedicate al trailer, prima di scegliere un film? … 30 secondi? Per il CV è la stessa cosa, il CV è un trailer e in pochi secondi il recruiter decide se chiamarvi oppure no; e non lo farà se non lo aggancerete emotivamente. Il trailer non dice la trama del film, fa trasmettere le emozioni che proverai guardando il film. E come si fa ad emozionare tramite un curriculum? Raccontando la persona>>.

Altra cosa ancora che dico sempre ai ragazzi è che il CV non è una scienza. So bene che per noi STEM non avere un approccio deterministico è uscire dalla comfort zone, ma un CV non è nient’altro che un esercizio comunicativo. A tutto questo si aggiunge l’importanza del target.

Sbagliare target è come non inviare il CV perché quella determinata posizione non “calza” sulla tua persona. Questo avviene quando, per esempio, una persona, laureata o no, fa application per un ruolo in cui o non c’entra niente o non riesce a mettere bene in evidenza il perché andrebbe bene per quel ruolo.

Ottimo! A proposito di trailer e CV: da un paio di anni sui siti web di diverse multinazionali è sempre più facile trovare la richiesta di caricare un CV formato video o una piccola presentazione di sé stessi, sempre in video. Tu cosa ne pensi?

Secondo me è un aspetto da non sottovalutare invece del classico CV cartaceo, perché molto d’impatto e veloce come contenuto oltre che di portata più esponenziale. Però allo stesso tempo dipende dalla persona ovvero dall’attitudine di quella persona di vincere le proprie paure e di capire se si è impostati dietro una telecamera. Ti racconto la mia esperienza; io tutt’oggi mi sento una scema quando registro un video e difatti per aiutarmi metto un pupazzo difronte la telecamera, nonostante ci sono passata tante volte perché ho fatto anche dei corsi per la Treccani e avevo due cameramen. Ho capito da tutte le mie esperienze che sono forte in determinati contenuti video (online e in diretta) e meno in altri come quando sono registrata, però col tempo e l’esperienza mi sto sciogliendo. Quindi, il mio consiglio è fare, provare se uno ha l’attitudine ma anche solo per capire come presentare la propria persona, che è un concetto fondamentale.

Quali consigli daresti ad un neolaureato e/o ad una persona che per la prima volta si affaccia al mondo del lavoro grazie alla sua formazione universitaria?

Prendiamo ad esempio i giovani neolaureati che hanno deciso di intraprendere un percorso di orientamento con me o con altri orientatori, fortunatamente hanno capito l’importanza di avere una direzione. Seneca diceva: << Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa in che porto vuole approdare >>. Ed è vero! Il problema del neolaureato, come dicevo prima è il fatto che scrive il proprio curriculum in maniera statica, ovvero: <<… sono laureata in Farmacia … ho fatto esperienza in farmacia e sto cercando una posizione coerente alle mie competenze ed esperienze.>> Tutto questo equivale a dire << Oddio! Non so che fare nella vita! Vi prego spiegatemelo!>> Io qui, purtroppo, essendo molto diretta do una risposta che non a tutti piace: << Non è compito dell’azienda orientarti, ma è quello di farti capire quali ruoli ricoprire>>.

Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa in che porto vuole approdare. Seneca

L’azienda cerca persone in target. Se l’azienda apre una posizione per uno stage, ad esempio in Regulatory Affairs, in Quality Assurance ecc… difficilmente vorrà una persona che non abbia un’idea di queste posizioni. Ovvio che uno stagista non è tenuto a conoscere nel dettaglio le mansioni e i ruoli specifici di determinate posizioni ma quanto meno saper collocare il ruolo nel settore di appartenenza. Io in questo caso consiglio ai ragazzi di PRENDERSI un momento e cercare di fare chiarezza nella propria testa. Come? Ci sono vari modi:

  • Auto-orientamento, usate Linkedin per contattare e chiedere supporto a persone che già ricoprono quel ruolo e farvelo spiegare; creare quindi connessioni di valore e chiedere intelligentemente;
  • Orientamento con un professionista. È il metodo più veloce rispetto a quello precedente. Personalmente io fornisco una mappa, costruita sulle caratteristiche della persona, cioè in base a quanto emerge magari capisco che mi sto interfacciando con una persona alla quale non piace la pratica, sicuramente sconsiglio ruoli di laboratorio (Quality control), oppure se è una persona creativa la vedo meglio su ruoli comunicativi (Marketing).
    • Affiancarsi a delle Associazioni di settore o a Società scientifiche come SIMEF (Società Italiana di Medicina Farmaceutica), AFI (Associazione Farmaceutici Industria), SIARV (Società Italiana Attività Regolatorie, Accesso e Farmacovigilanza), PHARMAGRAM ecc…
  • Usare l’AI nei profili che si conoscono meno (andando dopo a verificare l’output), ma usarla in modo intelligente è uno strumento potentissimo.

L’altra cosa fondamentale che un neolaureato dovrebbe sapere è quella di STUDIARE IL MERCATO. Questa è una cosa che le persone veramente faticano a capire, perché poi dopo si lanciano messaggi come: << non c’è LAVORO in Italia >>. DIPENDE. Dipende dalla posizione e dipende dal ruolo che sto considerando. Facciamo un esempio pratico:<< L’ Italia, nel mercato farmaceutico è molto forte sui farmaci generici. Infatti, secondo il rapporto dell’osservatorio Nomisma (https://www.nomisma.it/focus/osservatorio-2021-nomisma-sui-farmaci-generici-dati-riflessioni-e-strategie-sul-settore/), l’Italia è uno dei più grandi Paesi produttori di farmaci equivalenti in Europa (considerando che il 75% dei farmaci generici consumati nel mondo è prodotto proprio in Europa). Di conseguenza ci sono tante aziende in “buona salute” che producono farmaci generici chimici (small molecules). Al tempo stesso sul territorio abbiamo poche aziende Biotech, quindi pochi farmaci biotecnologici la cui produzione in Italia è scarsa, se non nulla. Con questi dati già si capisce che puntare a ruoli in aziende farmaceutiche produttrici di equivalenti aumenta molto di più le probabilità in gioco rispetto ad aziende biotech. Quanto più è raro il ruolo, tanto più scarsa sarà la sua presenza sul mercato. Dunque, è importante guardare prima di tutto come è fatto il mercato di riferimento. C’è anche da considerare l’area geografica (del mercato): in Italia le aziende farmaceutiche sono maggiormente diffuse in Lazio e Lombardia. Certo, ci sono anche nel resto del Paese, ma stiamo parlando di numeri molto piccoli e/o comunque non nella stessa densità. Questo significa che se io scelgo di studiare nell’ambito farmaceutico (Farmacia/CTF/ Biotecnologie) e dopo non voglio pagare il prezzo psicologico relativo all’investimento emotivo di trasferirmi nel Lazio o in Lombardia, dovrò necessariamente pensare ad un piano B. Io sono napoletana, sapevo benissimo che dopo la laurea mi sarei dovuta spostare a Milano ed era un prezzo che volevo pagare. In sostanza, più conosci il mercato, più sarai in grado di fare una scelta e pagarne eventualmente il prezzo. Per questo motivo secondo me, un primo orientamento andrebbe fatto addirittura, già tra le scuole medie e le scuole superiori, poi tra le scuole superiori e l’università e post accademia per il mercato del lavoro; tutto questo, nonostante il rispetto per la figura dei professori, andrebbe fatto con i professionisti in aula e non attraverso i docenti orientatori.

Giustissimo, sono molto d’accordo su tutto. Adesso abbracciamo un attimo il tema delle soft skills, altro ambito nel quale negli ultimi anni molti atenei in Italia hanno aperto dei corsi, lasciando intendere un certo interesse sul tema. Tu cosa ne pensi?

Qua vorrei introdurre un concetto che è noto a pochi, ma che determina purtroppo un grosso problema nel mercato del lavoro, ovvero lo SKILL MISMATCH, la mancata corrispondenza tra le competenze – tecniche, umane e sociali – acquisite dalle persone, specie dai giovani ancora in cerca di occupazione, e quelle richieste in ambito lavorativo dalle aziende. Questo fenomeno è trasversale a tutto il mondo del lavoro odierno ma è molto rappresentato proprio nelle figure STEM. Infatti, com’è possibile che i settori STEM che “vanno a ruba” non vadano bene per le posizioni lavorative odierne? La risposta è che esiste uno scollamento tra le competenze prodotte in Accademia, quindi Hard skills e Soft skills, spesso non aggiornate, e quello che viene prodotto per esempio nei ruoli professionali, quindi nel mercato del lavoro che è sempre più veloce e sempre più innovativo, soprattutto nella Life Science. Facciamo un esempio pratico: l’ultima novità di questi anni è sicuramente l’Intelligenza Artificiale (AI) che impatterà in maniera devastante l’industria farmaceutica e tutto il mondo Health Care. Infatti, l’uso dell’AI nella diagnostica è già realtà, sappiamo già che alcuni programmi di AI sono in grado di scrivere dei documenti regolatori, seppur male, ma non ci vorrà molto per colmare il divario con l’essere umano. Ad oggi chi le ha le competenze per sfruttare l’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro? Fondamentalmente nessuno, perché quando nasce una tecnologia ovviamente le competenze non le ha nessuno, però esistono le soft skills che permettono di gestire le nuove innovazioni. Se le Hard skills sono l’inglese, la matematica, la fisica, la farmacologia le soft skills rappresentano il pensiero critico, la virtù di IMPARARE ad IMPARARE.

La chiave è la curiosità, la voglia di mettersi in gioco. Queste sono le competenze che si vendono realmente alle aziende. D’altronde ti cito velocemente il World Economic Forum (WEF), ente no profit che a livello globale si occupa di economia. Questa organizzazione ha redatto ben dieci skills fondamentali per il mondo del lavoro:

  • Il pensiero analitico
  • il pensiero creativo
  • la resilienza
  • la flessibilità e l’agilità
  • motivazione e l’autoconsapevolezza
  • la curiosità e l’apprendimento perenne, chiamato anche Long Life learning
  • la competenza tecnologica
  • l’affidabilità e l’attenzione ai dettagli
  • l’empatia e l’ascolto attivo
  • la leadership dell’influenza sociale e il controllo qualità, inteso come la capacità di gestire e valutare il livello qualitativo di un prodotto o un servizio.

Successivamente ne sono state aggiunte altre tre: l’intelligenza artificiale e i big data, quindi la gestione e l’uso formale dell’intelligenza artificiale, la gestione del talento, quindi la capacità di estrarre il meglio dalle persone. E l’orientamento al servizio. Queste sono le 13 competenze che serviranno per i prossimi anni e che ad oggi non vengono prodotte da (quasi) nessuno, né dalle Accademie, né dalle organizzazioni anche se quest’ultime in realtà fanno qualcosa ma è tutto a scelta del cittadino. Tante volte, mi batto nelle live o a lezione per farle allenare, io stessa mi alleno quotidianamente; ho avuto da sempre, grazie a mio padre, un approccio curioso e aperto verso la tecnologia. Nonostante il mio passato, alcuni social media come Instagram o TikTok non li so usare al pari di Linkedin, eppure cerco di tenermi aggiornata, SEMPRE. D’altro canto, uno dei primi studi sulle soft skills è stato svolto ad Harvard negli anni 30 e si conclude con l’affermazione che le life skills contano circa l’80% del successo professionale e personale, quindi senza queste skills non si va da nessuna parte. Riporto per concludere l’esempio di una ragazza venuta da me, la quale deve lavorare sull’autoconsapevolezza, sulla motivazione e la capacità di gestione delle relazioni; nonostante sia una persona meravigliosa con il gruppo, fa fatica a gestire le dinamiche di gruppo, perché poi è bellissimo gestire un team, ma devi saper anche gestire le “cose” negative di questo.

Esempi di Soft Skills – Immagine creata grazie a Microsoft Copilot

Data l’importanza delle soft skills, come potremmo far capire agli studenti che queste possono essere “apprese” sfruttando sia attività extra, sia le possibilità universitarie (Erasmus, Tesi e tirocini in azienda/ sperimentale ecc.) e quindi a non vedere l’Università solo come un “esamificio”?

Questa è una bellissima domanda e non concerne solo la laurea ma la si può estendere anche ai percorsi di master e/o al dottorato. Faccio una premessa: “Per una persona STEM (e te lo dico come tale), contano solamente le competenza tecniche, quindi più imparo meglio è”. Voglio fare un’ulteriore precisazione: c’è una differenza enorme tra conoscenza e competenza; io posso conoscere ad esempio il social media Instagram ma non avere alcuna competenza su di esso. Ho voluto fare questo esempio perché è il mio caso. Io conosco Instagram, conosco il ragionamento dietro l’algoritmo del media e, nonostante ciò, non ho competenza perché non ho messo e non sto mettendo in pratica. Voglio dire che la conoscenza da sola non basta, ha bisogno della/e skill/s per tradurre in pratica le mie conoscenze; il lanciarsi, mettersi in gioco, essere curiosi, provare, andare per tentativi ed errori. La pratica è quindi fondamentale e la si acquisisce facendo. È pensiero comune che, quando una persona si laurea non abbia competenze, in realtà non è vero.

Paradossalmente non si ha conoscenza del luogo di lavoro, ma competenze come hard skills e alcune soft skills; quindi, si può avere ad esempio pensiero analitico, allenato negli anni (banalmente studiando e capendo, non a memoria), pur non sapendo di averlo e non sapendolo quindi mettere in evidenza.

La questione è FARE, FARE, FARE

L’Erasmus, ad esempio, rappresenta tutta una serie di competenze come l’auto-motivazione, perché si va in un territorio straniero dove non conosci nessuno, sei fuori dalla zona di comfort e/o magari è la prima seria esperienza di vita fuori di casa in cui te la devi cavare da solo su tutto, dove devi creare nuove relazioni. Chi si mette in gioco nell’Erasmus “sblocca” nuove competenze emotive, relazionali.

Le competenze si possono allenare facendo l’Erasmus, il servizio civile, ne alleni delle altre facendo gli sport o volontariato. Le alleni sempre, continuamente. Anche l’università dipende da come l’affronti. Ti dico una cosa che col senno di poi l’avrei voluta sapere prima ma che ho imparato dalla mia esperienza ed è molto impopolare, ma, a mio avviso molto significativa. Io, all’Università sono stata quella che era sempre al primo banco, prendeva gli appunti, studiava e NON FACEVA NIENT’ ALTRO. Io l’università l’ho finita alla velocità della luce con il 110 e lode e in 5 anni spaccati, MA NON HO OTTENUTO RELAZIONI. Oggi, il suggerimento che do è che se ci devi mettere sei mesi in più, un anno in più per creare relazioni con colleghi o docenti, fatelo. Avevo l’opportunità di fare la tesi in azienda grazie ad un professore. Tale percorso avrebbe dovuto comportare uno spostamento -che non mi potevo permettere all’epoca, ma chissà se chiedendo e lavorando quindi sulla relazione avrei potuto ottenere un compromesso? Non sfruttando la relazione ho perso quel treno.

Tutto questo lo dico anche alle persone che mi chiedono se debbano fare un percorso di master, la risposta come sempre è DIPENDE da qual è il tuo obiettivo. La prima cosa che dico è che il master si dovrebbe usare come sistema per fare networking, per creare relazioni o per creare ponti per un nuovo lavoro. Inoltre, aggiungo, dato che in molti master si cercano di fare dei project work, fateli in argomenti che non conoscete come l’AI nel farmaceutico o lo SPOR; perché l’obbiettivo è distinguersi e avere qualcosa in più da raccontare. Guarda, io infatti sono veramente pentita di aver fatto tutto velocemente, senza puntare a fare niente che non fosse appunto finalizzato alla laurea. Per carità, resilienza, capacità di raggiungere l’obiettivo, però a un certo punto l’obiettivo è arrivato e ho dovuto ricominciare da zero.

Mi trovo d’accordo su tutto Lorenza perché anche io durante l’Università ho fatto un percorso non ordinario e devo dire che mi sta servendo moltissimo tutto ciò che ho imparato e le persone che ho conosciuto. Ok, siamo in conclusione, l’ultima domanda: ogni giorno a causa dei media tradizionali e non, capiamo come la comunicazione sia importantissima, sia nella vita quotidiana che nel mondo del lavoro. Come mai, secondo te, nei corsi STEM e/o scientifici in generale, non vi sono moduli di insegnamento concernenti la comunicazione? O, se ci sono, magari sono postumi, come i master in comunicazione della scienza, i quali stanno crescendo esponenzialmente dopo la pandemia?

Potrei essere molto cattiva. Penso che per quanto io sia amante della scienza e della comunità scientifica, questa ogni tanto dovrebbe scendere dal piedistallo e cominciare a stare in mezzo alle persone. Uno degli errori maggiori è stato commesso con la comunicazione del Covid, ma andando indietro, anche il caso Stamina è stato proprio l’esempio di come Vannoni, psicologo della comunicazione, abbia saputo esattamente come parlare e quindi come mettere facilmente in crisi l’ Aifa, che aveva ragione dal punto di vista tecnico ma che non è riuscita a comunicare il perché delle sue obiezioni su un metodo che non aveva senso. L’ Aifa pur avendo ragione è riuscita a passare dalla parte del torto davanti all’opinione pubblica, perché al tempo dei social ci sono due livelli, l’opinione pubblica e quindi il processo pubblico mediatico, e poi quello reale della comunità scientifica. Il genitore non ragiona come uno scienziato, come giusto che sia, perché lo scienziato deve cercare di portare una soluzione e deve essere oggettivo, non emotivo; però deve anche ricordarsi che dall’altra parte ci sono delle persone, non delle macchine, non dei topi. Quindi dovrebbe parlare in modo comprensibile.

Questo tema mi è carissimo, infatti mi piacerebbe molto occuparmi proprio di comunicazione tra le associazioni di pazienti e la parte scientifica, proprio perché sono una “psicobiotech” e parlo quindi entrambe le lingue e posso metterle assieme. Mancando queste figure succede che nell’ambito scientifico, soprattutto, ci si limita a considerare le persone come delle macchine: <<Io ho ragione perché io sono lo scienziato o medico e ti informo sulle cose…>> Bada bene, ho usato la parola INFORMANO e non COMUNICANO perché la comunità scientifica fa informazione (e pure male aggiungerei), ahimè, e non comunica. Difatti, tornando al Covid, ogni volta che andava in televisione un esperto scienziato aumentavano i no-vax e su questo ci dovremmo fare una domanda. Sicuramente in Italia abbiamo un problema di conoscenze scientifiche di base e di analfabetismo funzionale, però io da persona nel settore, ogni volta che sentivo parlare uno scienziato in televisione mi venivano le pustole!!

Invece di dire: << Io sono l’esperto di…>>, cosa che oggi non funziona più a livello comunicativo, lo scienziato, il medico o il farmacista di turno dovrebbe accogliere le paure de cittadino o dell’assistito (quindi andare in ascolto empatico) e una volta tranquillizzato e rasserenato parlare della parte tecnica, in modo comprensibile, con il registro adeguato.

Il problema alla base è ovviamente di tipo culturale. Abbiamo ancora quest’idea che lo scienziato deve stare sul piedistallo e da questo non deve scendere perché sennò è come se perdesse la sua professionalità. Lo si vede molto bene da quei pochi scienziati o medici che decidono sui social di fare divulgazione scientifica, banalmente è facile che vengano “screditati” dall’Accademia, quando oggi invece è fondamentale comunicare.

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